TESTIMONIANZA DI UNA MISSIONE    di Padre Giuseppe Ramponi IMC

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La mia testimonianza non può essere corta perchè sono in missione ininterrottamente dal 1967 e i ricordi hanno registrato moltissime cose di Africa e di  America del Sud.
Potrei fare come Giulio Cesare e tre parole basterebbero. Comincio subito e se passa il tempo mi fermo e lascerò a voi almeno la lettura, comoda e senza impegni.

La missione la conoscevo e l'avevo studiata come un lavoro-impegno-servizio del prete da fare in territori lontani ancora pagani e l'amavo con tutto il cuore. Più concretamente, come scelta e disponibilità, la missione era l'Africa e voleva dire andare a vedere cosa si poteva fare e aiutare con molta generosità e disponibilità. Il 17 settembre 1967 il parroco con la comunità parrocchiale di Pieve di Cento mi diceva addio con queste parole:
La Parrocchia si sente onorata di dare uno dei suoi figli alle Missioni africane, per portare la verità e l'amore di Cristo a coloro che hanno fame e sete di giustizia.

In novembre mandavo i primi sentimenti. 
Wamba, Marsabit, Kenya è il luogo del mio noviziato africano. La mia più grande sofferenza non è la fatica o la privazione ma questa tristezza nel veder tanta miseria.

Wamba era una missione da costruire e la precarietà era abbastanza pesante: alloggio provvisorio, molestie di insetti, animali, scorpioni, serpenti e insicurezza da tutte le parti. Io poi dovevo ubicarmi e trovare il mio posto nella 'Missione'. Studiavo la lingua e oltre alla pastorale da prete davo anche una mano nei lavori. Ma Wamba era Africa e tra bestie grandi e piccole, striscianti e punzecchianti bisognava farci l'occhio. La nostra missione faceva ridere al sentire che nel mondo l'agitazione era grande e sembrava che dovesse scoppiare da un momento all'altro. Era già il famoso 68 e tutti i governi tremavano e le strade erano piene di giovani decisi a imporre l'era della libertà assoluta.
In febbraio l'apprendistato era finito.

Il Parroco dice che di lingua ne so ormai più di lui così mi ha messo in piena attività missionaria. Vado a girare per i villaggi. Cominciano le visite apostoliche. 

Funzionavano le scuole della missione. Era l'attività forte per creare comunicazioni e portare l'evangelizzazione su un piano possibile che era quello dei ragazzi. I vecchi non possono cambiare vita ma aiutano molto approvando e lasciando fare l'educazione e formazione dei figli in un modo differente. Stavamo costruendo l'ospedale e i viaggi alla città erano indispensabili. Ma non erano favorevoli le strade specialmente durante le piogge. Così ho dovuto imparare cosa vuol dire rimanere bloccati e sentirsi assolutamente insignificanti. Intanto con il tempo si passava a una vita più inserita. Affioravano i veri problemi,  i contrasti tra la gente, le divisioni tribali, la inefficienza della amministrazione pubblica. Quello che si pensava fosse buono per la Missione veniva ridimensionato da un ritornello che non lasciava illusioni: per fare la missione ci vuole ben altro. Io ero molto legato alla mia parrocchia e mantenevo una corrispondenza abbastanza regolare. Mi sentivo appoggiato e sostenuto come fossi davvero il loro missionario più che missionario imc. Intanto poco a poco il quadro si riempiva di personaggi. Entrarono anche quelli dell'altra bandiera. Le relazioni ecumeniche si fanno benissimo in Europa, meno bene in Missione. Noi arrivavamo dove erano  padroni, a motivo del patrocinio inglese, i missionari protestanti . Anzi erano già lì da moltissimi anni. Io comprendevo il loro risentimento e mi facevano pena. Più tardi in America Latina ho capito perfettamente come si sentivano quando toccò a noi essere invasi dai protestanti che ci portavano via intere comunità con campagne di proselitismo sistematico.
Il tirocinio continuava con gli stessi movimenti: nella vita reale avere gli occhi e orecchie sempre 'on' per registrare tutto. Era come quando si preparava una tesi: raccogliere materiale, consultare fonti, verificare dati, fare ricerche e poi la stesura provvisoria e finalmente la stesura finale.
Dopo un anno potevo permettermi di scrivere alcune impressioni e delineare i termini di un progetto.

Esattamente una anno fa arrivavo a Wamba. Portavo nel cuore ancora la malinconia di quanto avevo lasciato dietro di me. Ma non erano rimpianti solo un poco di turbamento di fronte a un mondo totalmente nuovo in cui avrei dovuto vivere. Come quando in certi momenti decisivi della vita ci sembra di essere soli ad affrontare un futuro incerto. Ma ero pronto ad accettare il nuovo cammino con entusiasmo e buona volontà.  Avrei cercato di accogliere nella mia vita tutti quanti per amarli con tutte le mie forze. E questo non l'ho mai modificato. E'  molto quello che possiamo fare, anche senza avere colossali esperienze o doti particolari. Perchè vicino a noi stanno sempre quelli che hanno bisogno solamente di quel poco che siamo capaci di dare.

Il 15 dicembre del 69 arrivava il dr. Prandoni a Wamba.  Avrebbe organizzato l'ospedale ideale e per me sarebbe stato l'interlocutore intelligente e capace di meravigliosi dialoghi di ricerca per capire la gente. Mi aprivo già alla necessità dei discorsi antropologici e culturali.
Il momento solenne per entrare nel mondo della cultura lo ricordo con profondo rispetto e considerazione.

22 dicembre. Oggi mi è capitata una cosa meravigliosa. Un samburu, un fabbro, con cui parlo sovente per farmi introdurre nella comprensione degli usi e costumi del suo popolo, dopo la Messa mi ha chiamato in disparte perchè voleva darmi qualcosa. Mi ha mostrato un braccialetto di ferro a forma di serpente che aveva fatto lui, e dopo averci sputato sopra un bel pò con assoluta solennità me lo ha consegnato dicendomi: Da questo momento io e te siamo una sola cosa: tutto quello che è mio è anche tuo, tu sei mio fratello .Giustamente mi sono commosso  e mi sono sentito inviato e missionario.

 Siccome ero ancora nella fase della brutta copia avevo ignorato l'aspetto della reciprocità che era la parte non dichiarata della cerimonia. Inconsciamente avevo affermato un'altra verità ugualmente importante. Uno deve dare quello che può e aspettarsi altrettanto. Se voglio fare l'africano debbo travestirmi. Ma era importante aver dato motivo di ritenere che si poteva essere amici e anche fratelli pur con limitazioni. Certamente cominciavano i dettagli che mi avrebbero reso riconoscibile e identificato. La mia etichetta era:
Father Joseph è molto buono ma è sincero e bisogna essere trasparente con lui. Ama gli Africani e vuole aiutarli con tutto quello che ha e con tutto quello che ha imparato da loro. I bambini sono i preferiti ed è la presentazione infallibile per avvicinarlo. E' molto rispettoso ma vuole che le cose si facciano bene. La scuola è il suo villaggio.

Avevo anche deciso di capire la vita della gente e conoscere tutto senza dare giudizi e senza satanizzare nulla. Se qualcosa mi fosse risultata incomprensibile avrei cercato altri punti, altri tempi e altre voci per avere la visione più esatta possibile. Arrivò il primo cambio. Diventai missionario itinerante.
Da Wamba andai a Maralal per sostituire Padre Rosano (che andava in vacanza) dietro sua esplicita richiesta, finchè fosse arrivato il sostituto. La cosa meravigliò tutti perchè aveva fama di essere persona difficile come torre inespugnabile. Dopo passai a Loyangallani al lago Rodolfo (adesso si chiama lago Turkana) a sostituire Padre Polet che partiva per le vacanze. Furono esperienze interessanti e mi aiutarono ancor di più a formarmi nelle capacità indispensabili: adattazione, malleabilità, creatività, disponibilità. Il punto culmine della preparazione l'ho vissuto a Moyale con un confratello ritenuto grande maestro di spirito. Lì ho capito che è meno faticoso farsi santo che vivere con un santo.
Siamo a febbraio del 1970 e Mons. Cavallera, il Vescovo convoca le Conferenze Diocesane a Marsabit.
E' un momento importantissimo. La Diocesi accetta il discorso della inculturazione e crea l'ufficio, con un incaricato a tempo pieno, della Lingua-usi-e-costumi. Padre Venturino è per il distretto di Marsabit e Padre Ramponi per il distretto Samburu. Come piccola aggiunta dovrò assumere l'ufficio di Education Secretary. Ma sento soddisfazione: cultura e scuola sono i miei amori.
Nel 1970 passo a Maralal dove trovo Padre Rosano. Le scuole erano state nazionalizzate e si riconosceva la tradizione missionaria come identità da conservare e anche il diritto nella nomina del Direttore e di un certo numero di maestri. C'erano documenti chiari al riguardo ma bisognava cambiare atteggiamento. Bisogna bussare e farsi ricevere e chiedere e inventare linguaggi nuovi nelle relazioni con chi al mattino si era ritrovato nel gradino alto della scala.

Ho praticamente due fronti: l'educazione e la ricerca linguistica e etnografica.
E' un impegno grande soprattutto quello della lingua perchè si tratta di cominciare da zero e preparare tutta una struttura grammaticale e glottologica che ancora non è stata registrata.
La ricerca degli usi e costumi aiuterà a conoscere e far valere una cultura che è la base viva di un popolo. Facciamo tantissimo lavoro senza sapere cosa vuole la gente, cosa e come pensa la gente, senza una comunicazione certa. E si corre il rischio di  imporre la nostra strada e non aiutarli a decifrare la propria strada verso Cristo.

 Poco a poco ricostruisco il dialogo e il riconoscimento reciproco con le autorità. Loro hanno bisogno di noi perchè tra i Samburu sono ancora personaggi estranei. Ma loro comandano e hanno bisogno di farsi obbedire e ascoltare. Li aiutiamo e facciamo anche strategia raffinata: fargli dare quegli ordini che una volta venivano da noi. La difficoltà più grande era convincere i confratelli che era necessario imparare la lingua per fare evangelizzazione. Si comunicava con fatica usando un kiswahili rudimentale ma bastava per le attività comuni e scompariva la voglia e l'impegno di studiare seriamente l'idioma tribale.
Alla fine del 1972 tornavo in Italia per le vacanze. Erano passati cinque anni di introduzione alla missione e conveniva fare una revisione di concetti, metodi e impegni. Parlavo di cambiamenti interiori di prospettive e valutazioni.

In cinque anni ho dovuto cambiare parecchie idee e anche una forma mentale che mi accompagnava come bagaglio personale. Un missionario soffre la tentazione di sentirsi parte dell'olocausto e naturalmente si aspetta riconoscimenti e riverenze e invece gli tocca un altro coro e può sentirsi offeso svegliandosi in una realtà differente. Sognava d'essere maestro e si ritrova scolaro: credeva che spasimavano per il suo arrivo e si sente assolutamente estraneo, e molte volte fuori posto.
Allora bisogna rifare le misure e vestire gli abiti che vanno bene non un numero più grande che fa apparire goffi e ridicoli. In cinque anni è come avessi percorso una vita intera. Sono tornato piccolo per crescere di nuovo e aggiustare la mentalità e imparare e vedere e considerare giudizi e criteri, efficienza e efficacia con visioni e misure ben distinte.

 In cinque anni  ero riuscito a  formare un modello di scuola. Saint Mary's Girls Primary School nel 70 era una scuola persa in tutti i sensi. Il Governo aveva occupato tutto, scuola e convitto per un litigio tra il Parroco e il Direttore Distrettuale di Educazione. Siccome era Kikuyu la scuola si era riempita di Kikuyu e i Samburu erano ridotti a nemmeno 40 bambine. Entrai in funzione e la prima cosa fu ristabilire la relazione e accettare la storia. Accettai la restituzione della Saint Mary's e personalmente mi impegnai nella ricostruzione. Doveva diventare un modello. Cercai i collaboratori e chiesi che la suora che avevo conosciuto a Wamba fosse la Direttrice capace di vedere e accettare prima di tutto l'impegno educativo e formativo delle bambine. In 5 anni la scuola passò al primo posto assoluto in tutto: insegnamento, profitto accademico, sport e attività varie. Quando veniva un personaggio le autorità lo portavano con orgoglio al Saint Mary's. Mai dimenticherò un pomeriggio favoloso quando le bambine tornarono a casa dopo aver vinto le olimpiadi scolastiche. Le coppe erano ben alte e il coro fortissimo: sisi watoto wa Ramponi, gridavano. Noi siamo le bambine di Ramponi. Mi viene ancora la pelle d'oca. Saint Mary's è stato il capolavoro ma assieme ci sono altre scuole: la secondaria di Wamba, San Pablo di Maralal per bambini. La secondaria di Baragoi per giovani.
Passati cinque anni nel momento delle vacanze la suora come ricompensa ricevette una sentenza negativa a causa delle gelosie conventuali: siccome aveva amato la scuola più del convento non sarebbe ritornata a Maralal. Bisogna fare discorsi seri sulla presenza missionaria. E' un progetto personale di vita e deve inserirsi in un progetto comunitario. Chi deve adattarsi? Mi sembra logica la risposta. Per mettere la mia finestra debbo buttare giù la casa? Ma si è fatto parecchie volte perchè la mentalità vedeva l'africano come un pre-uomo, oppure un uomo da rifare. Adesso il discorso è cambiato. Ma allora ancora si faceva fatica a cedere i posti preminenti e offrire collaborazione per far crescere gli altri. Partire da quello che uno era e migliorare la sua capacità,  essere complemento per quello che esisteva e qualificarlo.
Era ancora necessario anticipare discorsi ma non dimenticare di metterci il plurale.

Debbo dire che il  mio lavoro non fu isolato. Con i padri del distretto Samburu avevamo creato una fraternità di dialogo e solidarietà totale. Ci incontravamo e parlavamo di tutto:  lavoro, difficoltà organizzazione, pastorale, cultura, progetti. Ogni mese ci incontravamo e si respirava amicizia e sostegno. Lo ricordo tutto come una esperienza bellissima di sintonia, apertura, entusiasmo e forza apostolica. Venne il Capitolo Generale e il nostro gruppo fu la coesione sufficiente per farmi proporre anche agli altri gruppi come delegato. Anzi divenni anche rappresentante continentale nel consiglio di preparazione. Una idea suggerita di creare l'ufficio generale di ricerca e pianificazione pastorale fu accettata ma ebbe vita difficile per la incomprensione assoluta di cosa dovesse fare. Secondo me l'avevano capita benissimo ma esistevano gli uffici tradizionali e con il nuovo temevano di perdere le famose prerogative. Tornato a Maralal bisognava essere coerente con le affermazioni. Era ora di fare dei cambi di luce. Dare visibilità alla africanizzazione e noi per restare accettare l'invisibilità. Maralal doveva diventare la prima missione da africanizzare. Il discorso incontrò netta opposizione da parte di chi doveva dare il decreto con coraggio e coerenza. Allora se i superiori non hanno ardimento noi non possiamo continuare a obbedire una consegna ingiusta.

Il Parroco di Maralal condivideva la decisione. Fu un momento di rinuncia coraggiosa. Avremmo lasciato Maralal per accettare la proposta di aprire una nuova missione a Mombasa, sull'oceano indiano, dall'altra parte del mondo. Mi attirò l'idea di mettere a punto il secondo capitolo della mia missione: accompagnare l'africano urbanizzato. Dalla terra propria, dalla società monoculturale passare alla città, alla societa pluriculturale.
La nuova parrocchia è un'avventura perchè non c'è ancora niente. La zona è mussulmana e tutto ha voce mussulmana. I cristiani sono di altre parti e di altre tribù con differente cultura e chiesa.
Ci sono cattolici, protestanti e tanti movimenti religiosi. I nostri cristiani non hanno veri lavori ma solo occupazioni occasionali. Il prete che dava qualche servizio religioso a piccole colonie ci dice che i cristiani sono pochissimi. Lo ha detto a occhi chiusi. Noi li abbiamo aperti e contiamo più di sei mila cattolici. Non abbiamo niente. Viviamo lungo il mare in una casa di vacanza. I nostri li raduniamo chiedendo accoglienza in una scuola.
Vogliamo creare piccole comunità impegnate che diventino motivo di animazione tra gli altri cristiani.
E' necessario e urgente promuovere  una presa di coscienza religiosa, comunitaria e sociale.

 A Mombasa la costruzione della chiesa viva si faceva con l'esperienza delle piccole comunità di base. Facilitava la localizzazione delle famiglie che formavano come quartieri tribali. La metodologia veniva dal vicino Tanzania che ci mandava i sussidi pastorali di Danda e Peramiho due abbazie benedettine fondate da tedeschi prima della grande guerra. In Kenya ancora non c'era una pastorale unificata. Strumento importante per le riunioni erano i canti religiosi. Il coro diventava una cellula importante anche per creare un tipo associativo che unisse le differenti etnie. Nel campo sociale mi dedicai ad aiutare i bambini poveri perchè andassero a scuola.
Una mamma della parrocchia divenne la coordinatrice del movimento  'elimu ni maisha' (educazione è vita). Con le adesioni c'era anche l'impegno a partecipare alle riunioni perchè si doveva accompagnare con idoneità educativa ai bambini che si qualificavano nella scuola. Si formò un comitato eletto dalle mamme che ebbe la gestione del progetto. Siamo arrivati anche ad avere 230 bambini e bambine. I mussulmani erano circa la metà. Risultò chiaro che non dovevano esserci pressioni di sorta. Anzi anche si pagava la tassa extra per il maestro di corano che insegnasse ai bambini mussulmani.

Un'altra scelta è stata affittare un appartamento popolare. Ricordavo i condomini dove sono nato.
C'era poca differenza. Siccome era una passerella bisognava essere trasparenti per forza e questo aiutò moltissimo a far coincidere quello che eravamo con quello che facevamo vedere. 
Con la gente siamo abbastanza affiatati: vuol dire che cerchiamo di respirare assieme senza fare passi troppo lunghi. Avanziamo a misura d'uomo e cerchiamo di fare una lettura attenta della realtà culturale, sociale, politica e religiosa per non cadere nell'errore di programmi troppo grandi o fuori posto.
Il Parroco si dedica alla visita delle famiglie, casa per casa con il quaderno per annotare tutto. Sentiamo il bisogno di avere la nostra casa, la casa del popolo cristiano, aperta a tutti e a tutta la crescita della chiesa. Ci sono dei cambiamenti importanti di personale.

Il Parroco è stato trasferito e io sono stato messo al timone. Un caro amico verrà ad aiutarmi anche lui con esperienza grandissima di Marsabit. Il Parroco che se ne va lascia un vuoto. Con lui sono stato sempre in collaborazione dal mio arrivo e anche se i nostri stili divergevano si completavano e io avevo bisogno di lui. La gente ha patito per la sua partenza. Gli volevano certamente bene e non facevano fatica a dialogare. Ogni persona ha la propria caratteristica che se si fa entrare nel lavoro comune diventa qualità preziosa perchè nessuno può ripetere gesti altrui. Adesso che lui non c'è non provo nessuna arroganza. Il mio naturale non ama i clamori e non sarò mai mago per sbalordire.
Mi piace osservare e studiare e scoprire le qualità degli altri e metterle a profitto. Mi piace fare il suggeritore che incoraggia e dice la parola giusta nel momento giusto.
Mi piace animare l'operosità e mai avrò invidia degli altri anzi mi sento felice quando incontro valori, doti, capacità. Certamente sogno ad occhi aperti e mi entusiasmo e faccio percorsi secondo la logica della porta che si apre e bisogna entrare per vedere. Ma se rimango solo torno indietro volentieri e se c'è da cambiare sono contentissimo.   

Nei miei anni di formazione ho sempre sentito volentieri una frase famosa che diceva il nostro Fondatore: il bene va fatto bene. La Chiesa è terminata: quella di pietre è bellissima e accogliente. Quella di pietra viva è ancor più bella favorisce con lavoro unanime lo sviluppo dei valori e le qualità specifiche di ognuno. Chi è stato da me ha visto: la chiesa è casa-famiglia e la gente arriva felice e non si stanca. La domenica è giorno lunghissimo per stare assieme. Poi durante la settimana c'è il lavoro, la formazione, l'educazione della comunità. Ci sono anche gli incontri per coordinare la promozione.

Ho nostalgia dei Samburu. Non ho mai perso i collegamenti, i ricordi. Ho fatto anche la revisione sincera. Voglio tornare a quella casa con decisioni rinnovate e disponibilità generosa.
Ma non si può. Chi doveva essere contento del mio ritorno lo impedisce. Se non mi dai io non voglio. Allora accetto altre proposte. Andrò a Colombia dove ci sono gli afro, discendenti degli schiavi evangelizzati da San Pedro Claver. Farò il terzo girone: africano nella sua propria casa, africano urbanizzato, africano esiliato. E vado proprio a Cartagena.
Ho due frontiere: la Parrocchia di Blas de Lezo con le attività ereditate: pastorale, giovani, liturgia, ufficio, associazioni varie. Bisogna migliorare e qualificare: che si faccia bene e meglio quello che si sta facendo. Poi c'è la specializzazione, il motivo della mia presenza. E' l'isola di Bocachica che è a mezz'ora di motoscafo ma culturalmente lontanissima, quasi un altro mondo.
Io sono cappellano. Il Parroco è un altro appena arrivato ma con molti anni di Colombia.

Ho dovuto adattarmi alle circostanze che richiedevano le mie specialità di cireneo. Ci sono problemi urgenti da affrontare subito ma si perde molto tempo a decifrare le priorità. Bisogna vincere molti ostacoli perchè come in altre parti l'oggetto delle predilezioni non sono i poveri. In genere il nostro metodo di lavoro usa un linguaggio intellettuale, comunica con un minimo di organizzazione, di programma, si basa su norme da osservare. Ha bisogno di eleganza, di buon comportamento, di comunicazione istantanea. Si può fare solamente a un minimo livello sociale e educativo.
Le frange umane impenetrabili e misteriose perchè sono inchiodate nei margini, si trovano nelle isole.
L'Afro di Bocachica rappresenta la distanza tra il peggio e il meglio, l'arco tra il diavolo e il santo.
Domina la povertà materiale e morale, l'immondizia, la negligenza. All'orizzonte c'è la buona sorte, Cartagena dove puoi cambiare identità ed essere un negro differente, rispettabile. Tutta la vita è aspettare l'ora magica, la barca giusta che ti faccia scappare per sempre dalla prigione. La rassegnazione passiva e indolente nella vita quotidiana si giustifica per il grande momento che certamente verrà. Quel momento magico giudicherà tutto, non il lavoro e l'impegno di ogni giorno.
Così ognuno, nel frattempo si consola raccontando storie di illusioni frustrate.
Ecco perchè l'isola vegeta in un abbandono di pigrizia: hanno smesso da anni di coltivare, non hanno neanche tentato di risolvere il problema dell'acqua: come fosse una tenda nel deserto da abbandonare quando smetta la furia del ghibli.   

Un Parroco ha tutti i diritti di avere visione missionaria propria. E' coordinatore della pastorale e non può sentirsi tranquillo con altre visioni se vuole accentrare. La mia presenza voleva dire aver sempre addosso l'occhio del giaguaro con la pellicola di altre idee, metodi e criteri differenti. Io credo che accettare la multiforme grazia di Dio vuol dire favorire e moltiplicare i segni portatori. La Grazia non è monocolore e ci sta male ad essere ridotta e mortificata da un solo segno. Quando viene l'aut aut chi ha anzianità di lavoro vince. Così da Cartagena andai al Caquetà, dall'oceano ai fiumi.
Il Caquetà è sempre stato incluso nella mia fantasia missionaria. E' zona di frontiera quindi entra nella categoria delle mie preferenze: cercare missioni difficili, povere, puro volontariato. Solano è zona di selva, porta dell'Amazzonia. Ci sono anche piccole comunità di Indios. Ma li ho visti con desolazione. Mi sono sembrati dei sopravvissuti. Vorrei aiutarli a ricuperare il valore culturale come identità irrinunciabile.       

Ho seguito i programmi dei predecessori: attenzione e simpatia per il centro, presenza nelle scuole, visite settimanali alle comunità dei coloni e degli indios. Mi dò conto che esiste un panico sotterraneo perchè bisogna sostenere delle ambiguità. Il giorno e la notte sono due culture per vivere due mondi diversi. Quando l'esercito si rinchiude e la polizia si ritira allora comincia un'altra vita: la coca e la guerriglia.
Mi piacerebbe parlare il linguaggio della ricostruzione comunitaria. Ci sono i luoghi della fede, della educazione, della cultura e della salute e anche della amministrazione comunale, da ordinare, mettere a posto e qualificare come benefici comunitari. Ma diventa una missione impossibile: come insegnare a fare la parte del santo a uno che poi deve recitare quella del diavolo. L'unica forma matrimoniale è l'unione libera perchè è impossibile essere a posto e rinunciare al guadagno facile, alla fuga solitaria.
Perchè coltivare la terra come onesto contadino e non diventare mai ricco? La coca è l'occasione della lotteria certa. Tutti, anche se sembra che coltivino, vivono della coca. I bambini sono i raccoglitori e le donne stanno nei laboratori. La foresta è piena però si chiudono occhi e orecchie.   

La mia presenza è voce nel deserto, il lumicino sempre acceso sulla montagna, aspettando che qualcuno si decida a tornare a casa.
Alla gente basta ricevere quelle attenzioni religiose che fanno parte della tradizione: battesimi, celebrazione delle feste e i funerali. Ma parlare di Evangelizzazione è fuori posto. Gli stessi confratelli mi guardano con compassione: tu vieni dall' Africa e là, ai pagani chiaro si parla di Vangelo, ma qui caro padre sono tutti cristiani. Ecco perchè dormono cristiani e si svegliano atei, dico io.
Mentre io evangelizzavo nel Caquetà la nostra Provincia faceva le famose 'Opzioni preferenziali' e diceva sì al Vescovo di Riobamba, Ecuador che chiedeva la presenza della Consolata nella sua Diocesi.
Ho sentito che era anche la mia scelta e ho mandato l'atto di volontà che hanno accettato. Come gratitudine per essere stato destinato all'Ecuador smetto di fumare. 

 

Arrivo in Ecuador il 18 Febbraio 1987.  Faccio due mesi di tirocinio e il 19 Aprile giorno di Pasqua arrivo alla Missione di Punìn, Cantone Riobamba, Provincia del Chimborazo, Repubblica dell'Ecuador.
La Chiesa locale porta avanti un discorso di solidarietà totale con i poveri, gli emarginati, gli indios.
Mi sembrano teorie raffinate e neanche Mandrake riuscirebbe a realizzarle. Gli Indios hanno bisogno di essere rispettati e lasciati tranquilli e vivere secondo le indicazioni della propria cultura.
Invece sono obbligati a vivere in uno stato imposto. Sono i padroni delle terre ma se possono gliele tolgono.  Giorni fa (novembre 1987) il paese si è commosso per la morte tragica di un Vescovo e una suora a mano di indios della foresta. Sono stati uccisi ritualmente per proclamare il diritto di difendere la propria terra, i costumi, la propria cultura. Hanno detto che li hanno confusi con gli invasori che sono le compagnie petrolifere. Ma credo che sapessero benissimo che erano missionari.

I primi anni sono stati un susseguirsi di lotte, litigi, conflitti di ogni tipo. I meticci capivano che volevamo la assoluta emancipazione degli indios e ci ostacolavano in tutti i modi.
Nell'area ecclesiastica valeva ancora esigere servizi materiali dagli Indios quando chiedevano i sacramenti. In Chiesa c'erano i posti a sedere per i meticci, chiamati cavalieri e gli indios dovevano cedere sempre e accomodarsi per terra. Noi la preferenza la davamo agli indios e cominciammo a promuovere l'organizzazione: associazioni, cooperative, gruppi.

Comincio due centri per la formazione degli indios: uno a Flores e l'altro a Nauteg.
Stavolta nel fortino ci sono i pellerossa e fuori scalmanati e furiosi i meticci.
Anche qui il problema più importante è l'educazione. Tutto quello che ricevo lo investo nella scuola: aggiusto, faccio nuovo, aggiungo aule. Ho davanti esempi chiari: Nina Pacari, Luis Macas hanno studiato, sono avvocati ma rimangono indios. Gli indios sono necessari al paese ma debbono saper comunicare con gli altri.

Erano i padroni delle geografie, dei fiumi, delle montagne, dei templi, dei campi, dei riti, della sapienza, della grandine e delle stelle. Poi quando arrivarono gli altri dovettero occupare altri posti.
Poi cominciarono a vagare nei discorsi che parlavano di loro, nei discorsi pietosi, nei catechismi e nelle lettere pastorali, nelle cronache e nei diari di viaggio. Io sogno che tornino a occupare le geografie e le politiche, le chiese e  almeno essere l'altra metà del paese con tutti i diritti e tutte le responsabilità.

90, 92, 94, 99, 2000  sono anni importanti. Gli indios vanno alla ribalta con forza e impongono cambiamenti, riconoscimenti e presenze nazionali. E oggi non lotta più soltanto per un pezzo di terra e per la rete di salute dei contadini o per l'educazione.
Noi nella Chiesa diamo ogni appoggio alla pastorale indigena. La Chiesa è il regno che deve costituirsi per indicare la versione giusta dell'uomo nuovo.
Allora vogliamo anche che non manchi la chiesa indigena per dare la versione giusta dell'uomo indio nuovo. Partiamo dalla gente che c'è, dai catechisti che portano avanti la chiesa viva in tutte le comunità.
Nessuna area è strana. Con i catechisti ci addentriamo anche nei piccoli progetti e molti sono impegnati per farli funzionare bene e con ottimi risultati.
Gli avamposti sono sempre quelli: educazione, formazione, chiesa, pastorale, organizzazione.
Partiamo da quello che c'è e lo miglioriamo, lo saniamo, lo qualifichiamo. Non cambiamo i numeri e non accettiamo  la cantilena: deme haciendo, dammi facendo. Se lo vuoi lo fai tu. Io ti aiuto  con il materiale che non puoi comprare.
Ci sono due pericoli grossi. Il primo è l'individualismo e il secondo è la globalizzazione.
L'individualismo con la scusa della identità propria fa vivere dentro una sfera di cristallo comportandosi come se niente di quello che sta fuori esistesse.
La globalizzazione si preoccupa solamente dell'acquisto e della vendita dei servizi, tutto il resto non esiste. Noi faremo di tutto perchè l'indio sia sempre di più indio in tutti i dettagli della vita che deve vivere. Ma deve allo stesso tempo essere sempre di più cittadino. E volere essere cittadino, cioè volere vivere assieme e accettare il compito serio di come costruire l'altro dal nostro sguardo, dalla nostra parola, mettendo a fuoco con la nostra lente. Perchè se non edifichiamo l'altro mettiamo in pericolo la nostra stessa esistenza. 

Non mi metto nella politica attiva e quando ci sono le rivolte mi chiudo in casa e non vado a nessuna marcia. Solo una volta per evitare molestie al padre anziano che stava con me, ex parroco e odiato da alcuni dirigenti indios, sono uscito e ho fatto la marcia con i manifestanti. Era tanta la sorpresa che pensavano fossi io il 'jefe' e chiedevano a me la indicazione dell'itinerario.

Io la politica la faccio in modo differente. Ai Catechisti faccio conoscere i fatti secondo i giornali e chiedo la critica attiva analizzando quello che conosciamo e cercando altre versioni. Le leggi penali, la Costituzione, i diritti dei popoli, i diritti umani, i diritti dei bambini, la legge delle cooperative, la legge delle comune sono state presentate e commentate apertamente. Gli Indios hanno molti dirigenti ma non c'è preoccupazione di rappresentare dopo una consulta. Rappresentano a priori, prima e se esiste l'Assemblea è per diramare gli ordini.

Nella Chiesa locale di Riobamba incontrai Mons. Proaño il famoso Vescovo Redentore degli Indios. Già ritirato e in disparte viveva nel Centro Diocesano di Santa Cruz dove presi residenza per due mesi mentre facevo la inserzione missionaria. Ero nella stessa tavole tre volte al giorno e i discorsi e i commenti non mancavano. Mi aiutò a capire la situazione vera al di là delle apoteosi e dei vari miti creati dai discepoli, collaboratori e agitatori vari.
Certamente voleva un gran bene agli indios e soffriva brutalmente la distanza e la marginalità che ancora si portavano addosso. Desiderava che la sua chiesa potesse ricevere  e fare accomodare gli indios con gli altri. E diede loro il vangelo e la parola di Dio come chiave per sentirsi cristiani dentro il Corpo di Cristo. Ma la Chiesa grande aveva altri linguaggi e altre tradizioni e non poteva o non voleva cedere alle pressioni per cambiare la disposizione dei posti e dei ministeri. Aveva avuto anche il pensiero di cominciare un tipo nuovo di Chiesa partendo dalle comunità di base. I suoi agenti di pastorale si entusiasmarono solamente per l'aggettivo base che spodestava il senso di comunità come incontro volontario per una convivenza vera e fraterna.

Dimenticarono gli aggettivi importanti che sono anche genitivi di possessione: di fede, di speranza e di carità. Gli agenti di pastorale  pensavano che bastava dare l'assalto al palazzo e mandare a spasso l'antica gerarchia e installare la nuova organizzazione. Sarebbe stata la Chiesa popolare e la nuova liturgia doveva essere la lettura comunitaria della parola di Dio e la fede doveva riformarsi secondo la cultura e l'unica autorità riconosciuta era l'organizzazione che avrebbe coordinato tutte le attività in una grande minga: sacramenti, progetti, catechisti, sport, azione sociale, educazione ecc.

A mio parere l'errore era stato confondere classe sociale con nazione. Si può lanciare la consegna: 'proletari di tutto il mondo unitevi', ma non si potrà mai dire: indios di tutto il mondo unitevi.
Un indio sempre avrà motivazioni differenti a quelle di un operaio o di un contadino non di origine indigena. Perciò l'errore grande fu denunciare il problema indigena come una tara sociale da risolvere con la integrazione. Allora tutti anche sebben intenzionati in realtà hanno lavorato per inserire gli indios nella società comune senza contare con la loro partecipazione e il loro consenso.

 Il Che aveva detto a Jorge Icaza, il famoso scrittore ecuadoriano, autore del libro 'Huasi pungo' che aveva incontrato a Cuba: 'Jorge con i tuoi indios farò la rivoluzione'. Lo scrittore Ecuadoriano rispose: 'Con i miei indios non potrai fare la rivoluzione'.

Per molto tempo ho studiato la situazione e la diagnosi dei problemi vari mi portava sempre a delle conclusioni abbastanza diverse da quelle ufficiali che erano il punto di arrivo della pastorale diocesana.
Il mio piano voleva aiutare l'indio a qualificare quello che era e quello che aveva prima (o simultaneamente) di intraprendere la superazione dell'accantonamento. Le aspirazioni al riconoscimento di nazione e popolo potevano trovare risposta in un progetto di autonomia regionale dal momento che le elezioni si vincevano con la maggioranza e loro erano maggioranza in alcune regioni.
Altrimenti come facevano a reclamare l'esercizio di un diritto senza la idoneità?
Preparati e organizzati avrebbero affrontato i diversi interlocutori politici, sociali, amministrativi e anche religiosi.

Le aree della mia iniziativa sono state: l'educazione di base e quella complementaria.
Ho costruito scuole nuove e ho provveduto alla agibilità di altre che erano in rovina. E perchè la scuola diventasse centro educativo ho iniziato e sto di fatto coordinando un grande progetto di adozioni scolastiche per dotare ogni scuola di un fondo gestito e amministrato dalla comunità. Ho anche promosso l'educazione complementaria con l'apertura di centri educativi per l'educazione a distanza. 

Altra iniziativa è stata la creazione di associazioni femminili. Ogni comuna doveva avere il gruppo delle donne associate prima di tutto per lavorare assieme e imparare a stare assieme e affrontare assieme problemi comuni di casa e gestione famigliare. Poi secondo il dinamismo acquisito potevano anche dare inizio a altri discorsi di promozione politica e di genere.
Posso riferirmi a vari gruppi di donne che sono diventati officina di promozione e gestione non solo di piccoli progetti economici alternativi ma anche di asili, e centri preprimari e scuole di sartoria e artigianato.
Di proposito in ogni zona parrocchiale ho costruito un centro di capacitazione che doveva funzionare e di fatto funziona come centro propulsore di qualificazione artigianale e formazione comunitaria.
 Il più bello e efficiente si trova a Flores grazie anche alla presenza di una suora vincenzina dedicata pienamente alla Missione. Altrove funzionano per gestione locale e almeno sono autosufficienti nelle spese correnti e nel mantenimento.

L'opera che mi impegna moltissimo è la formazione dei catechisti. Dovevano crescere e arrivare alla leadership comunitaria. Non più vergognosi e alienati ma dignitosi e rispettati perchè capaci perchè in grado di essere responsabili di un lavoro e di coordinare le comunità. Sono tutti volontari e sanno fare lavoro di promozione sociale e dirigere vari progetti.  Con loro sto portando avanti la pastorale indigena. Ogni comuna ha cappella e il gruppo dei cristiani è organizzato come una chiesa viva come si sognava in Africa: con i tre self: self supporting, self ministering, self propagating (si automantiene, si autoamministra e si autopromuove). Invece la Diocesi vuole fare la chiesa indigena con gli stranieri e con  gli elementi e strutture diocesane ancora tutti in mano dei meticci. E' chiaro che per essere indigena  una chiesa prima deve essere chiesa, vale a dire comunità di fede, speranza e carità.

Certamente il processo è lento. Non ho importato indios tipo Mandrake ma ho cominciato da quelli che c'erano e ho chiesto la loro pazienza e la loro fiducia perchè dovevano credere nel progetto umano e cristiano e ecclesiale. Io li ho aiutati a rafforzare l'autostima e a spingerla un poco nella direzione che indicava il vangelo perchè tutto fosse vita e tutto risultasse quella buona notizia che faceva respirare davvero e animava davvero con speranza e vigore al passo seguente. Non ho inventato niente. Ho scoperto la perla preziosa e non l'ho tenuta per me ma l'ho restituita a loro perchè fosse un tesoro da moltiplicare e condividere tra tutti.

Un proverbio dice: se ti danno un limone fai una limonata. Io ho fatto così e l'abbiamo bevuta assieme.
Altri stanno a discutere se è giusto se basta e perchè così e come si può accettare una ingiustizia tanto grande  e cinica, bisogna protestare, fare azioni di resistenza vigilante ecc. ecc.

Noi come armata brancaleone siamo andati all'assalto delle nostre paure, dei nostri limiti e delle nostre vigliaccherie. Oggi posso dire anch'io che i poveri mi hanno insegnato a leggere il Vangelo e io li ho convinti a usarlo come investimento per moltiplicare le buone notizie per tutti senza inutili farse.    

 

 

Padre Giuseppe Ramponi

COOPERAZIONE MISSIONARIA

MISSIONI CONSOLATA

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Tel. 011-4400400

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